Archivi tag: sanità

vaccinazioni veneto

VENETO: ANCORA 50MILA I MINORI NON VACCINATI

In Veneto le vaccinazioni imposte dalla legge Lorenzin per i minori tra 0 e 16 anni, ad un mese dal termine ultimo del 10 marzo, risultano ancora insufficienti: solo un bambino su tre le ha fatte. Sono previste multe e allontanamento dagli asili.

Manca ormai solo un mese al termine del 10 marzo imposto dalla legge Lorenzin ai genitori dei minori tra 0 e 16 anni per presentare la certificazione relativa alle dieci vaccinazioni obbligatorie. Ad oggi in Veneto risultano ancora 50mila gli studenti di quella fascia d’età non vaccinati, su un totale di 571.463. Tra questi 21mila non hanno assunto nessuno dei vaccini indicati.

Quando si tratta poi dei bambini tra gli 0 e 6 anni privi di tale certificaizone (8800 circa) la situazione diventa più critica: se non in regola oltre a dover pagare una sanzione fino a 500 euro, come gli studenti di elementari, medie e biennio delle superiori, saranno costretti a interrompere a metà anno scolastico la frequenza al Nido o alla materna.

Le Usl, per far fronte a questa situazione, hanno assunto nuovo personale, hanno aggiunto alle vaccinazioni ordinarie i recuperi e lavoro extra allo sportello per rilasciare le documentazioni e per fissare colloqui con i genitori dei minori inadempienti. Nonostante questo, dalla prima ricognizione regionale del 19 settembre (77mila i ragazzi ancora non vaccinati), non si sono compiuti i passi in avanti sperati. Solo un terzo del totale è stato messo in regola (27mila), mentre l’8% risulta ancora scoperto.

«E’ una percentuale alta — avverte il segretario padovano della Fimp (pediatri) Giuseppe Giancola perché va sommata al 4%-5% dei bambini che pur immunizzati non rispondono al vaccino, quindi è come se fossero scoperti. Per garantire l’effetto gregge, cioè la tutela loro e dei piccoli che a causa di gravi motivi di salute non possono essere vaccinati, bisogna arrivare a una copertura del 92%-95%, in ogni classe e in generale. Ora, stando agli ultimi dati e aggiungendoci i bimbi che non rispondono ai sieri, nella fascia d’età 0-6 anni siamo a quota 85%-86% (in generale invece il Veneto è al 92%, ndr). E i sindaci chiedono di prorogare questa situazione di pericolo? Ma allora ha ragione il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, quando dice che giocano sulla salute dei bambini. Quando i politici parlano di Medicina fanno grossi danni, forse perché la confondono con la sanità. La prima è scienza, di cui non sanno nulla, la seconda è l’organizzazione della Medicina».

Sono centinaia poi le famiglie contrarie ai vaccini che rimandano e usano scuse: «La stanno tirando in lungo apposta — conferma Antonio Ferro, igienista e responsabile del sito regionale VaccinarSì — prendono appuntamento all’Usl ma il giorno prima telefonano per disdire con le scuse più varie, tipo il bambino ha la febbre, o mandano una nota scritta per chiedere chiarimenti già ricevuti. Di colloqui le aziende sanitarie ne hanno concessi a migliaia, ora partono le raccomandate di richiamo alle famiglie che non si sono mai presentate. In più le Usl stanno aspettando dai ministeri di Salute e Istruzione l’autorizzazione a trasmettere direttamente in via informatica alle scuole lo stato vaccinale degli iscritti. Per superare i problemi di privacy scriveranno solo: a posto, oppure non a posto. Così si eviteranno le file dei genitori agli sportelli».

Ci si chiede poi: a chi toccherà allontanare dall’asilo i bambini non vaccinati? «Alle scuole — spiega Stefano Cecchin, presidente della Fism — o ai sindaci per le poche materne comunali del Veneto. La nostra associazione riunisce 1043 asili per un totale di 93mila iscritti: ovvero il 65% nella fascia 3-6 anni e il 50% tra zero e 3 anni. All’inizio di marzo faremo una ricognizione per capire quanti iscritti non siano in regola. A quel punto esamineremo a fondo caso per caso, ma tolte situazioni particolari dovremo rispettare la legge e quindi dall’11 marzo non potremo più accettare in classe i bimbi non a posto con le vaccinazioni».

Fonte:Corriere del Veneto

Condividi:
Facebooktwitterlinkedinmail

Gli italiani hanno rinunciato alle cure per le liste d’attesa

Più cure, ma solo per chi può pagare.

Se infatti è arrivata a 34,5 miliardi di euro la spesa sanitaria sostenuta di tasca propria dai cittadini italiani, sono diventati 11 milioni nel 2016 gli italiani che hanno dovuto rinviare o rinunciare a prestazioni sanitarie nell’ultimo anno a causa di difficoltà economiche e liste d’attesa infinite, non riuscendo a pagarle di tasca propria. Sono 2 milioni in più rispetto al 2012. E’ quanto emerge da una ricercaCensis commissionata da Rbm Assicurazione Salute (società privata che vende polizze a copertura di spese sanitarie), presentata oggi a Roma al VI ‘Welfare Day’.

Anziani quasi un quarto.

Se gli italiani spendono meno e risparmiano su molte cose, quando si tratta di cure e terapie, se se le possono permettere, preferiscono non rinunciare. L’incremento della spesa sostenuta dai cittadini è stato del 3,2% nel 2013-2015, il doppio dell’aumento di quella complessiva per i consumi delle famiglie nello stesso periodo, pari a +1,7%. La ‘sanità negata’ mette a rischio soprattutto le fasce più deboli della popolazione: riguarda 2,4 milioni di anziani e 2,2 milioni di millennial, la generazione nata tra la metà degli anni Ottanta e i primi anni del Duemila. Pensionati e quei giovani, spesso senza un posto di lavoro e con una vita precaria, che rinunciano a curarsi. Una tendenza quella di ‘tagliare’ le spese sanitarie legata alla crisi e economica ed emersa nei precedenti rapporti del Censis e dell’Istat.

Caro ticket.

L’andamento della spesa sanitaria privata – segnala ancora l’indagine – è tanto più significativo se si considera la dinamica deflattiva, rilevante nel caso della diminuzione dei prezzi di alcuni prodotti e servizi sanitari. Nel Servizio sanitario nazionale il ticket è aumentato fino a superare il costo della stessa prestazione in una struttura privata. Il 45,4% dei cittadini ha pagato tariffe nel privato uguali o di poco superiori al ticket che avrebbe pagato nel pubblico. Questo dato cresce di 5,6 punti percentuali rispetto al 2013.

Le liste d’attesa.

Il 72,6% delle persone che hanno dovuto scegliere la sanità privata lo ha fatto a causa delle liste d’attesa che nel servizio sanitario pubblico si allungano. Pagare per acquistare prestazioni sanitarie è ormai un gesto quotidiano: più sanità per chi può pagarsela.Sono inoltre 7,1 milioni gli italiani che nell’ultimo anno hanno fatto ricorso all’intramoenia (il 66,4% proprio per evitare le lunghe liste d’attesa). Il 30,2% si è rivolto alla sanità a pagamento anche perché i laboratori, gli ambulatori e gli studi medici sono aperti nel pomeriggio, la sera e nei weekend.

“Peggiora la qualità del Ssn”.

Per il 45% degli italiani la qualità del servizio sanitario della propria regione è poi peggiorata negli ultimi due anni (lo pensa il 39,4% dei residenti nel Nord-Ovest, il 35,4% nel Nord-Est, il 49% al Centro, il 52,8% al Sud), per il 41,4% è rimasta inalterata e solo per il 13,5% è migliorata. Il 52% degli italiani considera inadeguato il servizio sanitario della propria regione (la percentuale sale al 68,9% nel Mezzogiorno e al 56,1% al Centro, mentre scende al 41,3% al Nord-Ovest e al 32,8% al Nord-Est). La lunghezza delle liste d’attesa è il paradigma – secondo l’indagine – delle difficoltà del servizio pubblico e il moltiplicatore della forza d’attrazione della sanità a pagamento.

Il commento di Lorenzin – “E’ chiaro che il Sistema Sanitario deve fare i conti con la grave crisi economica che le famiglie stanno vivendo e che questa indagine Censis ci conferma la necessità di difendere l’aumento previsto del Fondo Sanitario per il 2017-18, che intendiamo utilizzare tra l’altro per sbloccare il turn over – ha commentato Beatrice Lorenzin, ministro della Sanità – . Deve essere chiaro a tutti che non si possono fare le nozze con i fichi secchi”. Lorenzin ha aggiunto che proporrà di inserire nel decreto sulle nomine dei direttori generali delle aziende sanitarie “una norma che imponga di valutare i manager anche in relazione agli obiettivi di riduzione delle liste d’attesa”.

Fonte: La Repubblica

Condividi:
Facebooktwitterlinkedinmail

La crisi economica ha fatto aumentare la mortalità per tumori

La crisi economica ha fatto aumentare la mortalità per tumori e malasanità. Tra il 2008 e 2010 oltre 260mila decessi in più.

La crisi economica non ha fatto male solamente alle tasche degli italiani. Ha fatto anche aumentare la mortalità per tumori e malasanità: tra il 2008 e il 2010 sono stati registrati 260mila decessi in più per cancro nei paesi Ocse e circa 160 mila nell’Unione europea.

E’ quanto rivela uno studio pubblicato su Lancet, la prima analisi completa che ha guardato all’effetto della disoccupazione e dei cambiamenti nella spesa pubblica per la salute sui decessi per cancro.

DISOCCUPAZIONE E CANCRO

Gli autori della ricerca, ricercatori delle università di Harvard, di Oxford, dell’Imperial College e del King’s College di Londra, hanno utilizzato dati della Banca Mondiale e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, alla ricerca di un collegamento tra disoccupazione, spesa sanitaria e mortalità per cancro in 75 nazioni, per oltre 2 miliardi di persone. L’amara conclusione a cui sono arrivati è che sia la disoccupazione, che i tagli alla sanità pubblica giocano un ruolo evidente in queste morti di troppo. Ancora più amara la constatazione che le morti in eccesso sono quelle evitabili, cioè quelle relative a tumori considerati “trattabili” (cioè con un tasso di sopravvivenza superiore al 50%), come quelli di mammella, colon-retto e prostata.

Proprio per i tumori trattabili si è verificata la maggior flessione: i cittadini non hanno avuto accesso alle dovute cure a causa di un reddito inferiore alla media e non sono potuti guarire. È stato calcolato che l’1 per cento di disoccupazione ha corrisposto ad un aumento delle morti dello 0,37 ogni 100mila persone.

TAGLI ALLA SANITA’

“Il cancro è un’importante causa di mortalità in tutto il mondo – afferma il dottor Mahiben Maruthappu dell’Imperial College di Londra – quindi comprendere come i cambiamenti economici possano influenzarne la sopravvivenza è di importanza cruciale. Nel nostro studio abbiamo riscontrato che un aumento dei tassi di disoccupazione si associa ad un’aumentata mortalità per cancro e che la copertura sanitaria universale protegge da questi effetti, soprattutto nel caso dei tumori trattabili. La spesa sanitaria è strettamente correlata alla mortalità per tumore e questo suggerisce che i tagli alla sanità potrebbero costare delle vite”.

Fonte: Qui Finanza

Condividi:
Facebooktwitterlinkedinmail