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Lavoro, in Italia si trova con parenti e amici: “così si svilisce il merito”

In Italia i canali che funzionano meglio rispondono ancora al nome di parenti, amici e conoscenti ai quali un occupato su tre deve il proprio impiego.

E’ quanto emerge da una ricerca dell’Isfol, l’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori, secondo la quale si arriva al 60% dei casi se si considera l’aiuto “indiretto” richiesto alle reti delle proprie relazioni personali durante la fase di ricerca del lavoro. Di contro, i servizi per il lavoro pubblici e privati svolgono un ruolo di intermediazione diretta molto contenuto: “Solo il 3,4% degli occupati dichiara di aver trovato lavoro attraverso i Centri per l’impiego (CPI) e il 5,6% mediante le Agenzie di lavoro interinale”.

Secondo l’Isfol, se anche la raccomandazione può avere un risvolto positivo per la persona che sta cercando lavoro, è evidente che distorce il mercato nel suo complesso: l’intercessione di parenti e amici “comporta il rischio di una riduzione delle opportunità lavorative a disposizione di tutti, impedendo a chi non ha adeguati network di trovare una collocazione ideale. Le reti informali riducono la concorrenza tra le persone in cerca di lavoro e le possibilità di affermazione professionale, svilendo il merito”. A ciò si aggiunge il fatto che – complici i blocchi della Pa – i concorsi pubblici si sono inceppati e quindi altri posti liberati “per merito” sono stati bloccati.

Canali di ricerca di un impiego (intermediazione indiretta) e canali di ingresso nel mercato del lavoro (intermediazione diretta)*

Guardando alle altre modalità di ricerca di lavoro, “l’autocandidatura, ovvero proporre il proprio curriculum vitae, è stata utilizzata dal 58% degli occupati nella fase di ricerca e ha determinato direttamente un’assunzione per il 20,4%. I contatti nell’ambito lavorativo e la lettura di offerte su stampa sono stati un canale di intermediazione indiretta rispettivamente per il 44% e il 36% degli attuali lavoratori e un canale di intermediazione diretta per il 10% e il 2,6%”.

Fonte: La Repubblica

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Lavoro: in Italia il record europeo degli scoraggiati

Secondo le statistiche di Eurostat, l’Italia ha il numero più alto di disoccupati e sfiduciati che hanno smesso di cercare occupazione.

Un “serbatoio” di lavoratori da 3,55 milioni di persone. Sono in gran parte “scoraggiati”, italiani tra i 15 e i 74 anni che non hanno fatto un tentativo di cercare un lavoro, o che – in minima parte – hanno cercato lavoro ma non si sono dichiarati immediatamente disponibili a svolgere mansioni. Secondo le statistiche ufficiali di Eurostat, nessuno come l’Italia registra un esercito tanto folto di persone che restano ai margini del mercato del lavoro, non indossando la casacca di occupati e neppure quella di persone in cerca di occupazione.

istat lavoro

Le cifre

I numeri sono stati pubblicati in settimana dall’ufficio statistico europeo e il grafico mostra chiaramente come l’Italia si distanzi dagli altri Paesi. Nel complesso dell’Unione, infatti, ci sono 11,4 milioni di lavoratori potenziali, un quarto dei quali risiede tra le Alpi e la Sicilia. In Germania, giusto per fare il raffronto con i primi della classe, i lavoratori potenziali sono solo un milione, il 2,4% della forza lavoro complessiva contro il 14% italiano. Il bacino si divide in due gruppi: chi è disponibile a lavorare, ma non lo cerca, e chi cerca ma non è immediatamente disponibile. Il primo sottogruppo è generalmente più ampio del secondo e questo avviene in maniera rilevante in Italia, a testimoniare una maggior incidenza di scoraggiati (senza dimenticare il ‘sommerso’). Per altro, si tratta di un esercito di persone che se si riversasse improvvisamente alla ricerca di lavoro, non trovando sbocchi, innalzerebbe sensibilmente i valori del tasso di disoccupazione, che sta lentamente scendendo.

Già altri studi, per esempio del Bruegel, indicavano come la crisi avesse esacerbato il problema tra i giovani: l’Italia vanta il poco gioioso primato dei Neet, ragazzi che non sono né al lavoro né agli studi. Eurostat ha invece quantificato che negli anni della crisi (2008-2015) sono cresciute, nel Vecchio continente, il numero di persone che non hanno cercato lavoro pur volendolo (+1,8 milioni), che aggiungono il già duro trend di crescita dei disoccupati (+6,1 milioni).

Il rapporto di Eurostat non si è limitato a indagare il fenomeno della forza lavoro potenziale, ma ha altresì registrato il numero di lavoratori part-time sotto-occupati, cioè che avrebbero volentieri rimpinguato il loro orario di lavoro. Gli europei a tempo parziale sono 44,7 milioni, due su dieci occupati, e di essi sono ben 10 milioni quelli che la statistica considera forzatamente in quella condizione: quasi un quarto (22,4%) di tutti i lavoratori a tempo parziale e il 4,6% del totale degli occupati. Il problema affligge in modo particolare le donne, che sono i due terzi dei sotto-occupati a tempo parziale. Almeno in questo caso, l’Italia non spicca per i suoi numeri: i sotto-occupati sono 748 mila, il 3,3% degli occupati.

Fonte: Repubblica.it

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Istat, i giovani del 2016: poco occupati, poco coinvolti. Sei su 10 vivono con i genitori, il 42% sogna un futuro all’estero

Il Rapporto Istat traccia  un ritratto dettagliato della situazione giovanile in Italia e della situazione di precarietà.

I grandi cambiamenti della Generazione della ricostruzione, l’impegno e le aspettative dei Baby boomers, le prime difficoltà della Generazione di transizione, lo smarrimento dei giovani Millennials, trincerati in casa con i genitori e all’inseguimento di un lavoro che non c’è, fino all’alienazione della Generazione delle Reti, sempre connessi, cosmopoliti, con lo sguardo ormai irrimediabilmente rivolto verso gli altri Paesi.

Il Rapporto Istat

Il Rapporto Istat di quest’anno coincide con il novantesimo compleanno dell’Istituto, e non resiste alla tentazione di tracciare un efficace ritratto, una narrativa per dati dell’evoluzione del Paese dal dopoguerra ai giorni nostri. Con un’istantanea del presente non molto entusiasmante: “L’Italia sta finalmente uscendo da una recessione lunga e profonda senza termini di paragone nella storia di cui l’Istat è stato testimone in questi 90 anni”, dice il presidente Giorgio Alleva, aggiungendo che adesso finalmente il Paese “sperimenta un primo, importante momento di crescita persistente, anche se a bassa intensità”. E con qualche proiezione futura, non molto confortante: “Le dinamiche demografiche comporteranno un miglioramento piuttosto modesto del grado di utilizzo dell’offerta di lavoro” e pertanto “nel 2025 il tasso di occupazione resterà dunque prossimo a quello del 2010, a meno che non intervengano politiche di sostegno alla domanda di beni e servizi e un ampliamento della base produttiva”, si legge nel rapporto.

In altre parole, la produzione industriale sta crescendo, si riprendono anche manifattura e costruzioni, l’occupazione aumenta, le politiche familiari di riduzioni dei consumi rallentano. Ma nella sostanza il Paese non va più avanti: l’occupazione cresce solo perché i cinquantenni rimangono al lavoro ben oltre i 60 per via delle riforme pensionistiche, mentre il tasso di occupazione dei giovani cala drammaticamente.

Sempre più trentenni rimangono in casa con i genitori, si formano meno famiglie, nascono meno bambini. In passato la laurea era un forte fattore di spinta e di miglioramento sociale, ma adesso neanche l’istruzione superiore mette al riparo i giovani dalla precarietà e dalla disoccupazione, o dalla sottoccupazione, della quale sono le vittime principali. Quello che davvero fa sempre più la differenza è nascere nella famiglia giusta, in Italia ma in fondo anche in Europa: c’è una correlazione sempre maggiore tra il livello professionale dei genitori, la proprietà della casa e la posizione dei figli.

Rimangono alcune chance, per i più volenterosi: nel 2015 così come nel 1991 continua ad avere alte possibilità di occupazione chi si laurea in ingegneria, materie scientifiche o del gruppo chimico-farmaceutico; il voto finale alto è quasi sempre un fattore di vantaggio, e lo è anche la partecipazione a programmi di mobilità studentesca all’estero, come l’Erasmus. Però bisogna fare molta fatica per emergere, e non stupisce che il 46,5% dei ragazzi stranieri che vivono in Italia sognino di vivere all’estero da grandi, un’aspirazione che condividono con i loro coetanei italiani (42,6%).

Il ricambio generazionale

Pochi giovani. Se in Italia si diventa anziani sempre più tardi, dal momento che gli uomini di 73 anni e le donne di 75 di oggi hanno la stessa speranza di vita di un sessantacinquenne del 1952, il numero di giovani si riduce sempre di più. Attualmente meno del 25% della popolazione italiana ha un’età compresa tra 0 e 24anni, una quota che si è dimezzata dal 1926 ad oggi. Si tratta di una delle percentuali più basse in Europa. Il 2015 è stato un anno record per il calo delle nascite, sono state 488.000, 15.000 in meno rispetto al 2015, con la fecondità che diminuisce per il quinto anno consecutivo, attestandosi a 1,35 figli per donna.

Sei giovani su dieci vivono con i genitori. Il 62,5% dei giovani tra i 18 e i 34 anni vive ancora con i genitori, con una forte differenza tra le donne (56,9%) e gli uomini (68%), ma soprattutto una consistente differenza con la media europea, che si attesta al 48,1%. Ma se si guarda ai più giovani le percentuali sono ancora maggiori: nel 2015 vive con la famiglia il 70,1% dei ragazzi di 25-29 anni e il 54,7% delle coetanee, vent’anni fa le percentuali erano del 62,8% e del 39,8%. Tutto viene spostato in avanti, a cominciare dal matrimonio, si sposta il primo figlio e anche l’età nella quale si diventa nonni. Non si tratta di pigrizia, però: i Millennials sperimentano in modo massiccio le difficoltà del mercato del lavoro, che taglia posizioni soprattutto tra i più giovani, non garantisce stabilità e penalizza le retribuzioni.

Il mercato del lavoro

Giovani, (carini?) e disoccupati. Il Rapporto Istat dedica al mercato del lavoro il capitolo 3, ma stavolta la chiave di lettura è “per generazione”. E non potrebbe essere altrimenti, visto che il problema dell’Italia non è tanto che l’occupazione si stia riprendendo lentamente, e che comunque il livello del 2008 non sia stato ancora recuperato, quanto il fatto che gli occupati crescano soprattutto nella fascia di età 50-64 anni (più 1,5% rispetto al 2014 e più 9,2% rispetto al 2008). E dunque non si tratta di un vero aumento, quanto di una maggiore permanenza, dovuta alle riforme previdenziali. Mentre il tasso di occupazione dei giovani rimane particolarmente basso, al 39,2% contro il 50,3% del 2008. Inoltre “il percorso più tradizionale, in cui alla fine degli studi segue un lavoro permanente, è stato via via sostituito dall’ingresso con lavori a termine. Neanche la laurea salvaguarda particolarmente i giovani, perché il tasso di occupazione di un laureato di 30-34 anni è passato dal 79,5% del 2005 all’attuale 73,7%. E infine tra i giovani il tasso dei sovraistruiti (in possesso di un titolo di studio superiore rispetto al lavoro che fanno) è triplo rispetto a quello degli adulti.

Fuga dalla politica, meglio i social. Negli anni la partecipazione politica è decisamente diminuita. Era molto alta per la generazione “della ricostruzione” e per quella successiva, mentre per le ultime due generazioni prevale la partecipazione sociale, che però per i più giovani diventa sempre di più “social”, legata al forte uso delle nuove tecnologie, marcato soprattutto per i figli di immigrati.

Eppure i giovani imprenditori sono più bravi. Peccato che i giovani siano tenuti così a margine nella società italiana, perché quando hanno l’opportunità dimostrano di valere molto. Per esempio nelle microimprese, che rappresentano oltre il 85% delle unità produttive italiane, le aziende guidate da imprenditori giovani hanno aumentato i posti di lavoro più che quelle guidate da imprenditori anziani.

La disuguaglianza sociale

Disuguaglianza in aumento, ascensore sociale bloccato. L’Italia ha avuto un incremento record della disuguaglianza, passata, secondo la misurazione dell’indice di Gini, dallo 0,40 del 1990 allo 0,51 del 2010. Le ragioni non sono così difficili da trovare, sono legate soprattutto agli squilibri del mercato del lavoro, che a loro volta dipendono moltissimo dalle condizioni di partenza. L’Italia è tra i Paesi dove è maggiore infatti il vantaggio degli individui con status di partenza “alto”, cioè che a 14 anni vivevano in una casa di proprietà e che avevano almeno un genitore laureato e con professione manageriale. Al contrario, ci sono sempre più minori a rischio di povertà perché i genitori sono disoccupati o hanno uno stipendio basso. Per cui per i minori l’incidenza della povertà relativa è salita dall’11,7% al 19% tra il 1997 e il 2014, mentre per gli anziani si è dimezzata nello stesso periodo, passando dal 16,1 al 9,8%.

Fonte: Adico

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Istat, la staffetta generazionale non funziona. La fotografia del paese.

I giovani sono sovraistruiti per i lavori che fanno e il loro peso è sempre minore. Sono impiegati soprattutto nel privato. Calano i Neet, ma restano 2,3 milioni.

C’è la ripresa moderata del Pil e la crescita dei consumi delle famiglie spinta dall’aumento del reddito disponibile, la ripresa degli investimenti e la lenta fuoriuscita delle nostre imprese dalla crisi, e c’è il lavoro (a cominciare però da quello che ancora manca) nella fotografia che scatta l’Istat col suo Rapporto annuale.

Un’analisi molto dettagliata sulla situazione del Paese e le sue prospettive, e sulle trasformazioni sociali e demografiche (la popolazione italiana diminuisce e invecchia). Con una lettura che attraversa le varie fasce generazionali: giovani, adulti, anziani, dalla Generazione della ricostruzione a quella del Baby boom, dalla Generazione di transizione a quella del Millennio (la più colpita dalla crisi) sino all’ultima, la Generazione delle reti.

Generazioni in conflitto

Generazioni in conflitto, in alcuni casi, reti e complementarietà da costruire in altri. Nuovi problemi che emergono, primo fra tutti quello delle protezioni sociali che si rendono necessarie oggi e nel futuro prossimo. E tra le righe il rapporto dell’Istat mette in dubbio che uno dei temi più dibattuti degli ultimi tempi, quello che la staffetta generazionale giovani/anziani sui luoghi di lavoro possa funzionare davvero per dare una prospettiva di lavoro alle nuove generazioni, come tanti economisti (ma anche i sindacati) sostengono. Il confronto tra i 15-34enni occupati da non più di 3 anni al primo lavoro e le persone con più di 54 anni andate in pensione negli ultimi 3 anni, infatti, secondo l’Istat fa emergere l’esatto contrario: la difficile sostituibilità “posto per posto” di giovani e anziani. Mentre i giovani entrano soprattutto nei servizi privati – 319 mila nei comparti del commercio, alberghi e ristoranti e servizi alle imprese, a fronte dei 130 mila in uscita – in altri settori le uscite non sono rimpiazzate dalle entrate (125 mila escono da Pubblica amministrazione e istruzione contro 37 mila entrate). Fine dell’illusione, insomma.

Del resto, rileva il rapporto Istat, tra il 2004 e il 2015 giovani e adulti presentano dinamiche opposte. Innanzitutto, il peso decrescente dei 15-34enni sul totale degli occupati testimonia il progressivo invecchiamento della forza lavoro. A questo si aggiunge la diversa struttura dell’occupazione: gli occupati di 55-64 anni sono più presenti nei settori tradizionali (agricoltura, servizi generali della pubblica amministrazione, istruzione e sanità), i giovani nei servizi privati, in particolare alberghi e ristoranti e commercio. Inoltre, il maggiore investimento in istruzione dei più giovani non trova riscontro nella qualifica del lavoro svolto, tanto che il numero dei sovraistruiti fra i 15-34enni è quasi il triplo di quello degli adulti.

Fonte: La Stampa

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