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Lavoro accessorio e voucher, come vengono disciplinati

Ecco le regole dell’attività lavorativa di natura occasionale che può essere retribuita con i cosiddetti voucher lavoro.

Come viene disciplinato il lavoro accessorio, cioè l’attività lavorativa di natura occasionale che può essere retribuita con i cosiddetti voucher lavoro?

Con l’intento di arginare il fenomeno del lavoro sommerso – specie laddove, in relazione alla particolare natura della prestazione lavorativa, tale esigenza era maggiormente avvertita -, il D.Lgs. n. 276/2003, in attuazione della L. n. 30/2003, cd. Legge Biagi, introdusse nel nostro ordinamento la fattispecie del lavoro accessorio, meglio conosciuto come lavoro “a voucher”, caratterizzato – secondo la definizione fornita dallo stesso Decreto – da “attività lavorative di natura meramente occasionale rese da soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro, ovvero in procinto di uscirne”.

In un primo momento la legge prevedeva precisi limiti di utilizzo del lavoro accessorio, sia di carattere oggettivo che di carattere soggettivo.

L’art. 70, D.Lgs. n. 276/2003 stabiliva, infatti, un elenco di attività nell’ambito delle quali era ammesso il ricorso ai voucher quali, ad esempio, piccoli lavori domestici, insegnamento privato supplementare, piccoli lavori di giardinaggio, assistenza a bambini ed anziani, ecc..

Inoltre, potevano svolgere attività di lavoro accessorio solamente determinate categorie di soggetti:

  • disoccupati da oltre un anno;
  • casalinghe, studenti, pensionati;
  • disabili e soggetti in comunità di recupero;
  • lavoratori extracomunitari, regolarmente soggiornanti in Italia, nei sei mesi successivi alla perdita del lavoro.

In aggiunta alle predette limitazioni, le attività in questione non potevano avere una durata superiore a 30 giorni e non dar luogo a compensi superiori a 3.000 euro in un anno.

Tuttavia, dopo la sua introduzione, il lavoro accessorio venne scarsamente utilizzato.

Per incentivare il ricorso a tale fattispecie, la L. n. 92/2012, cd. Riforma Fornero, modificò l’originario impianto normativo, eliminando le limitazioni di carattere oggettivo e soggettivo sopra menzionate, lasciando in vigore il solo limite economico riferito al totale dei compensi percepibili dal lavoratore.

Da ultimo, il D.Lgs. n. 81/2015 – rientrante nel più ampio progetto di riforma del mercato del lavoro ribattezzato dall’Esecutivo stesso come Jobs Act – è ulteriormente intervenuto in materia abrogando il D.Lgs. n. 276/2003 e riscrivendo – al capo VI, artt. da 48 a 50 – la disciplina del lavoro accessorio.

Allo stato attuale, pertanto, è possibile utilizzare i voucher (anche detti “buoni lavoro”) per remunerare lo svolgimento di una qualsiasi attività lavorativa svolta da qualsiasi soggetto, fermo restando il divieto di utilizzo di prestazioni di lavoro accessorio nell’ambito dell’esecuzione di appalti di opere o servizi (ad eccezione di specifiche ipotesi che verranno individuate da un apposito decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali) e fatto salvo il settore dell’agricoltura, per il quale trovano applicazione particolari disposizioni.

L’unico limite riguarda l’ammontare dei compensi: da un lato il lavoratore non può percepire importi superiori a 7.000 euro netti in un anno civile, con riferimento alla totalità dei committenti. Dall’altro, qualora il committente sia un imprenditore o un professionista, non può erogare – attraverso l’utilizzo dei buoni lavoro – al medesimo lavoratore compensi superiori a 2.000 euro netti in un anno.

Per l’individuazione del valore nominale di ciascun buono orario, il D.Lgs. n. 81/2015 rinvia ad un decreto ministeriale ancora in fase di emanazione.

In assenza del citato decreto, il valore del singolo voucher, determinato dallo stesso D.Lgs. n. 81/2015, è pari a 10,00 euro.

Al momento del pagamento del lavoratore, viene trattenuta una quota contributiva da versare all’INPS (13%), unitamente a quanto dovuto all’INAIL (7%) ed al concessionario, a titolo di rimborso spese (5%). Al riguardo, va sottolineato come i compensi percepiti in esecuzione di prestazioni di lavoro accessorio siano del tutto esenti da IRPEF.

Importanti modificazioni sono state altresì introdotte con riferimento alle modalità di acquisto dei buoni lavoro.

In precedenza, infatti, era possibile acquistare gli stessi in formato cartaceo.

A seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2015, i committenti imprenditori o professionisti sono tenuti ad acquistare i voucher esclusivamente attraverso modalità telematiche. Viceversa, i committenti non imprenditori possono avvalersi anche di rivendite autorizzate (ad es. banche, tabaccherie, uffici postali, ecc.).

Ulteriore novità riguarda la possibilità per i soggetti percettori di strumenti a sostegno del reddito di svolgere prestazioni di lavoro accessorio. Possibilità inizialmente prevista per il 2013 dalla L. n. 92/2012, prorogata poi di anno in anno ed oggi resa strutturale dal comma 2, art. 48, D.Lgs. n. 81/2015, il quale prevede appunto che “prestazioni di lavoro accessorio possono essere rese in tutti i settori produttivi, compresi gli enti locali, nel limite complessivo di euro 3.000 di compenso per anno civile, da percettori di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito”.

In conclusione, va sottolineato come la liberalizzazione dell’istituto in questione ne abbia certamente garantito una diffusione di carattere eccezionale. Diffusione che però, in un numero crescente di casi, è ritenuta riferibile a fenomeni di elusione della vigente normativa.

Proprio per evitare ciò, è in corso di emanazione un decreto correttivo al Jobs Act il quale prevede, tra l’altro, delle modifiche alla disciplina del lavoro accessorio – in controtendenza rispetto al trend “liberista” che ha caratterizzato l’evoluzione dell’istituto -, finalizzate ad agevolare le operazioni di controllo dei competenti organi, in modo tale da rafforzare la regolarità del ricorso alla fattispecie stessa.

Stefano Carotti – Centro Studi CGN

Fonte: Qui Finanza

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Jobs Act: entro 10 giorni verrà emanato il decreto sui voucher in modo tale che i furbetti degli sgravi saranno colpiti duramente.

Inps, Poletti: “I furbetti degli sgravi saranno colpiti duramente”

Secondo il ministro la situazione non cambia il risultato del Jobs Act e annuncia: “Entro 10 giorni il decreto sui voucher”.

Dura Susanna Camusso: “Metteranno qualche cerotto senza affrontare la questione generale che si tratta di misure sbagliate”. Il 20 maggio via al part time
“In Italia accade molto spesso che su una legge ci sia qualcuno che fa il furbo, il Ministero del Lavoro aveva spiegato che ci sono cose che non si possono fare” per avere le decontribuzioni previste dalla Legge di Stabilità per le assunzioni a tempo indeterminato (nel 2014 gli sgravi ammontavano a 8mila per ogni assunto a tempo indeterminato), “poi si fanno i controlli e chi ha sbagliato viene duramente colpito”. Lo ha detto il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, parlando delle 60mila aziende finite nel mirino dell’Inps che avrebbero beneficiato di 600 milioni di euro cui non avevano diritto.
Poletti ha aggiunto che quanto accaduto, ovvero il fatto che circa 150mila lavoratori non fossero neoassunti, non cambia “in maniera significativa i numeri del Jobs act”. Il ministro ha quindi spiegato che “sono milioni che hanno usato la decontribuzione, in termini assoluti cambia poco”. Poletti ha invece ricordato come la creazione di “400 mila posti stabili è un grandissimo risultato. Noi vogliamo bene alle imprese ma alle buone imprese che rispettano le regole”.
Duro, invece, il giudizio del segretario della Cgil, Susanna Camusso: “Come sui voucher metteranno qualche cerotto senza affrontare la questione generale che si tratta di misure sbagliate, sono mesi che discutiamo e se viene fuori che in 100mila non hanno i requisiti, proverei a interrogarmi su come è stata fatta la norma. Credo che farebbe bene a tutti”.
Sull’argomento è tornato anche il presidente dell’Inps, Tito Boeri, che ieri per primo aveva sollevato il problema: “Abbiamo scoperto circa 100.000 posizioni di lavoro che hanno richiesto l’esonero triennale del 2015, che per tre anni porterebbe a circa 600 milioni di esonero totale”, ma “finora hanno beneficiato” solo di circa 100 milioni. “Ci siamo accorti di questo problema per tempo”, quindi la restante somma (500 milioni, ndr) non è stata mai erogata, perciò non “è utilizzabile”, mentre la quota di 100 milioni “speriamo di poterla recuperare rapidamente. Non si tratta di posti di lavoro fittizi”, bensì di “posti reali, creati dal Jobs Act”, per i quali, però, non era previsto l’esonero contributivo.
A margine dell’assemblea di Rete Imprese, Poletti ha anche parlato di voucher e pensioni. Sulla flessibilità in uscita “stiamo riflettendo su due parametri: la compatibilità economica con il bilancio pubblico, quindi la sostenibilità, e l’equità sociale. La stessa cosa non si può fare per tutti, non si può fare via 3% per tutti”. Il ministro ha quindi ribadito che si tratta di “una cosa molto complessa che deve tenere insieme equilibrio economico e sociale, c’è chi lavora e chi è disoccupato. Bisogna costruire un meccanismo più raffinato”. “Entro 10 giorni – ha quindi concluso Poletti – porteremo in consiglio dei ministri il decreto” per la stretta sui voucher con la tracciabilità del sistema di pagamento che ne limiterebbe gli abusi.
Poletti ha anche annuciato la partenza, “il 20 di maggio” dell’operazione sperimentale del part-time agevolato in uscita per i lavoratori vicini alla pensione, previsto dalla Legge di Stabilità. “Di fronte alla reazione di cittadini e imprese capiremo”, ha aggiunto, evidenziando che “il tema va considerato, perché è dentro le logiche in cui si costruisce un nuovo welfare nel nostro Paese”.

Fonte: la Repubblica

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Sempre meno sono i trentenni e sempre più sono le culle vuote. L'Italia sta perdendo una mamma su cinque perché prima si vuole essere autonomi.

Meno trentenni e più culle vuote. “Così l’Italia perde una mamma su cinque”

Hanno tra i 30 e i 34 anni, sono donne e sono sempre di meno. Nate a metà degli anni Ottanta, quando la popolazione in Italia già iniziava a crollare, sarebbero oggi, per età, le nuove “potenziali madri”. Numericamente però assai inferiori delle loro genitrici, e, viste le circostanze di vita atipiche e precarie, assai in difficoltà (insieme ai potenziali padri) nel progetto di mettere al mondo dei figli. Sorelle più grandi delle millennials, laureate ma in grande affanno sul lavoro, le trentenni di oggi sono protagoniste di quella che gli esperti chiamano la prossima e vicina “trappola demografica”. Nella quale, secondo una previsione del laboratorio di Statistica applicata dell’università Cattolica di Milano, l’Italia rischia di perdere una “potenziale madre” ogni cinque. E questo mentre i nati nel 2015 sono stati 478 mila, al di sotto dei 500 mila bambini l’anno considerati la soglia minima per sopravvivere al declino demografico. Perché non soltanto le donne tra i 30 e i 34 anni sono meno numerose: erano 2.263.843 nel 2005, sono 1.797.049 nel 2015 (un quinto in meno), ma a giudicare dalla tendenza attuale metteranno al mondo un solo figlio a testa, non di più e non tutte.

A meno di non invertire la tendenza. A meno di non riuscire a sostenere davvero la maternità. E la paternità. E il lavoro femminile, perché nonostante tutti gli sforzi l’occupazione delle donne in Italia è ancora al 46 per cento, e al Sud le senza lavoro sono, drammaticamente, l’80 per cento del mondo femminile. “Condivido la definizione di “trappola demografica””, dice Barbara Mapelli, docente di Pedagogia delle differenze all’università Bicocca, “perché una trappola è qualcosa in cui si finisce anche senza volerlo “. Le ragazze, in realtà, “i figli li vorrebbero, anche due o tre, ma nel nostro Paese è sempre più alta la distanza tra il desiderio di maternità e la possibilità di realizzarla”. Dietro questo sogno che spesso diventa rimpianto, non ci sono soltanto la precarietà, l’assenza di welfare, le aziende ostili alle gravidanze, la mancanza di congedi maschili, ma anche fattori culturali. “L’idea sempre più radicata nelle coppie è che al figlio si debba dare tutto. Altrimenti è meglio non farlo nascere. Le donne oggi vivono una contraddizione: da una parte la maternità è ostacolata da fattori oggettivi, dall’altra è enfatizzata all’estremo. Così, spesso, si finisce per rinunciare”.

Un quadro noto, eppure poco o nulla si è mosso. Lo sottolinea, con amarezza, Valeria Fedeli, vicepresidente del Senato, ex sindacalista con una conoscenza profonda dei nodi che bloccano la realizzazione della maternità (a due anni dalla nascita di un figlio una donna su quattro non è più occupata). E, per Fedeli, le parole chiave sono due: lavoro e padri. “Con il Jobs Act abbiamo provato a dare delle risposte, abbiamo ripristinato la legge contro le dimissioni in bianco. Ma è ancora troppo poco. Il cuore è nel lavoro delle donne: se non si investe sull’occupazione femminile, e sulla possibilità delle potenziali madri di “dividere” il carico della famiglia, i bambini continueranno ad essere pochissimi”.

Per diventare genitrici, chiarisce Fedeli, le ragazze vogliono essere prima di tutto autonome. “Ma la gravidanza è ancora vissuta dalle aziende come un costo insostenibile e, quindi, scoraggiata. Così per non restare disoccupate le ragazze rimandano”. E quando coraggiosamente un figlio lo mettono al mondo, e si trovano a dover conciliare la famiglia con la professione, vengono emarginate. “I ritmi del lavoro sono pensati al maschile: più ore dai all’azienda, più vieni premiato. Ma questo, se hai un bambino, non puoi più farlo”. E qui entrano in gioco mariti e compagni, per i quali Fedeli ha presentato una proposta di legge di congedo di paternità obbligatorio di 15 giorni. “Le esperienze europee ci dimostrano che se si condivide, le donne fanno i figli. E allora è da qui che si può cominciare “.

Ci sono però esperienze virtuose. Arianna Visentini fa parte di un team specializzato nella conciliazione tra maternità e lavoro. “Sono sempre di più le aziende che ci chiamano, di solito multinazionali. Ci occupiamo di gestire sia l’assenza della lavoratrice-madre sia il suo rientro. Durante la gravidanza l’aiutiamo a restare in contatto con l’azienda, al suo ritorno la sosteniamo nell’ottica dello smart-working, lavoro da casa e flessibilità. Abbiamo visto che nelle aziende che applicano queste buone pratiche crescono le maternità”. Dimostrazione dunque che la conciliazione è una realtà possibile.

Fonte: associazionedifesaconsumatori.it

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